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Interviste ai docenti – Nicola Eynard

Nicola Eynard

Architetto, libero professionista, vive e lavora a Bergamo. Svolge la professione dal 1989 ed è autore o co-autore di numerosi progetti e realizzazioni di opere edilizie pubbliche e private, di tipo sociale e abitativo, caratterizzate da una specifica attenzione ai temi dell’accessibilità, della fruibilità per tutti e del comfort ambientale. Collabora da 25 anni con enti pubblici, operatori privati e associazioni che si occupano del rapporto tra disabilità e spazio fisico.

Partiamo dalla sua biografia: che cosa l’ha portata a scegliere l’architettura come ambito di specializzazione? Che cosa l’appassiona di più del suo lavoro?

Da ragazzo ero molto interessato alla storia dell’arte e alla storia delle città, all’urbanistica più che all’architettura, anche se poi sono finito a fare per lavoro l’architetto. In realtà il mio sogno sarebbe essere un urbanista. La cosa che mi piace del mio lavoro e la cosa che mi ha spinto a fare questi studi è che l’architettura è legata alla vita delle persone: progettare gli spazi e i luoghi dove le persone si trovano a vivere, dove le persone abitano, mi interessa proprio nella misura in cui mi interessano le persone, l’umanità.

Tra i numerosi progetti che porta avanti con il suo studio Habilis uno dei principali fili conduttori è il tema dell’accessibilità e delle barriere architettoniche. Di che cosa si tratta in sintesi (differenza tra accessibilità e inclusione)?

Le barriere architettoniche sono tutti quegli ostacoli e quelle difficoltà che le persone possono incontrare nel muoversi e nello stare nello spazio fisico. I progetti che facciamo cercano di eliminare queste barriere architettoniche o non produrne per fare in modo che gli spazi siano completamente accessibili a tutti. Uno spazio inclusivo, oltre a essere accessibile, ha qualcosa in più, mi spiego con un esempio: rendere accessibile una scuola media significa fare in modo che le persone con difficoltà motorie riescano a entrare a scuola, un ragazzino che si muove in carrozzina per esempio. Un progetto di accessibilità potrebbe consistere nel realizzare sul retro della scuola uno scivolo. In questo modo la scuola diventa accessibile, però forse non è una scuola inclusiva perché il ragazzino in carrozzina deve entrare da un ingresso secondario, separato dagli altri quindi in qualche modo discriminato. Per fare in modo che la scuola sia inclusiva occorre che l’accesso che usano tutti sia praticabile anche per il ragazzo in carrozzina in modo che sia incluso nella comunità degli studenti.

Porta S. Agostino

Bergamo è una città inclusiva dal punto di vista architettonico?

Bergamo è una città antica che ha diverse cinte fortificate, le più famose sono le mura veneziane ma ce ne sono altre. È stata costruita in collina e quindi è stata pensata per essere meglio difesa e più difficile da penetrare. Le città storiche sono poco inclusive per natura, cercano di escludere gli stranieri, i possibili nemici e i pericoli in generale. Direi che soprattutto negli ultimi anni si sta facendo molto per cercare di rendere Bergamo una città più accessibile e anche più inclusiva. Per esempio si stanno studiando degli interventi per fare in modo che la passeggiata sulle mura possa essere percorribile da tutti. Sono stati già fatti degli interventi a Porta S. Agostino e tra poco verranno fatti a Porta S. Giacomo, in modo che chiunque possa raggiungere Bergamo Alta e fare la passeggiata delle mura in sicurezza, insieme agli altri. Inoltre lungo i marciapiedi della città di Bergamo ci sono, in vari punti, degli inserti di pavimentazione in rilievo, di colore diverso rispetto all’asfalto. Si chiamano tecnicamente “pavimenti tattilo-plantari” e sono fatti per aiutare le persone cieche o ipovedenti a orientarsi e a muoversi in città. Anche questo è un intervento che va nella direzione dell’accessibilità e dell’inclusione.

Qual’è lo spazio, l’edificio o addirittura la città che lei ha trovato molto fruibile dal punto di vista dell’accessibilità? Che caratteristiche deve avere?

Prima citavi il nord Europa e sentendo questa domanda mi vengono in mente alcune città dei paesi scandinavi: Göteborg, Copenaghen per esempio. Lì ciò che caratterizza le città e in particolare gli edifici pubblici è che sono pensati perché venga garantito a chi li frequenta un certo grado di comfort, di benessere ambientale. Sono luoghi accoglienti. In Scandinavia ci sono stati architetti come Alvar Aalto, Gunnar Asplund, Sverre Fehn che si sforzano sempre di creare luoghi accoglienti, dove per esempio ci siano panchine con sedute comode e confortevoli e banchi dei locali ad altezze diverse in modo tale da consentire a tutti di avvicinarsi. C’è un grado di sensibilità e consapevolezza che non ho visto da nessun’altra parte. In Italia mi vengono in mente città come Ferrara che, per esempio, pur essendo una città storica, ha il vantaggio di essere in pianura e a Ferrara c’è un’università in cui ci sono professori che hanno questa prospettiva e questa visione di un’architettura inclusiva. C’è un’attenzione e un rispetto nei particolari, nei dettagli che fanno la differenza.

Carrozzati a Vienna

Quindi secondo lei è una questione di mentalità o si tratta di modelli di riferimento diversi rispetto al nord Europa (privilegiamo l’aspetto estetico su quello pratico)?

C’è forse una mentalità diversa dal punto di vista storico-sociale, poi forse ciò che fa la differenza sono i soldi: i Paesi del nord sono più ricchi e quindi hanno già risolto altri problemi strutturali che per noi sono ancora un ostacolo quotidiano e sono già passati a risolvere questi problemi di carattere architettonico. In realtà in Italia non mancano le leggi a favore dell’accessibilità. C’è una normativa tecnica molto puntuale, forse fin troppo. Ci sono un sacco di leggi e a volte è difficile orientarsi anche per un professionista. Le barriere principali alla fine sono proprio quelle culturali, quelle insite in ognuno di noi che non ci permettono di guardare le cose dal punto di vista degli altri. Per esempio le persone che parcheggiano la macchina a cavallo del marciapiede e impediscono ai pedoni di passare creano una barriera architettonica e lo fanno perché nella loro testa c’è una barriera culturale.

Grande protagonista della pandemia che da più di un anno condiziona le nostre vite è la casa, l’ambiente domestico. Molto spesso spazi stretti e angusti che inducono all’isolamento o che non agevolano il telelavoro pongono un interrogativo importante: è necessario ripensare i modelli abitativi sia per la singola abitazione sia per il tessuto urbano?

La casa è diventata una grande protagonista delle nostre vite perché stiamo in casa molto di più e questi cambiamenti nell’uso della casa che si stanno determinando in realtà, forse, erano iniziati già prima della pandemia. Secondo me la pandemia ha accelerato dei processi come quello del telelavoro, del potersi incontrare anche senza vedersi fisicamente che c’erano già, ma non venivano molto utilizzati. Direi che la necessità di rendere lo spazio domestico sempre più flessibile e modificabile facilmente nel tempo a seconda delle esigenze è un tema che gli architetti e gli arredatori si pongono da tempo. Adesso il processo si sta accelerando e anche la tendenza, molto presente negli anni scorsi, di creare spazi abitativi sempre più piccoli si sta un po’ rivedendo perché ci si accorge che se in questi spazi minuscoli siamo costretti a starci molto tempo, magari con altre persone, si fa parecchia fatica. Quindi ora si pensa a spazi più ampi, si rivalorizzano i balconi e i terrazzi, se possibile si sfruttano i giardini e tutti quegli spazi flessibili, adattabili alle esigenze. È una bella sfida che però merita di essere affrontata.

A questa tendenza che voleva spazi minuscoli iper-attrezzati si contrappone una nuova concezione dell’abitare che sta prendendo piede…

Sì, si tratta del “cohousing”, letteralmente “co-abitare”. Consiste nel cercare di superare il modello della cellula abitativa autosufficiente in cui uno sta dentro per conto suo o con il suo ristretto nucleo familiare per accogliere, invece, dei modelli in cui ognuno avrà sempre i propri spazi domestici privati, ma all’interno del condominio o della struttura abitativa possono esserci degli spazi comuni, spazi dove si lavora insieme, lavanderie e cucine comuni. In modo che la gente possa, se vuole, stare con gli altri e avere spazi di condivisione abitativa. Sono esperimenti interessanti e anche in questo caso nel nord Europa ce ne sono molti, ma anche qui a Milano e in generale in Lombardia conosciamo diversi esempi che seguono questa linea.

Quali effetti possono avere le norme di distanziamento sociale nella progettazione di spazi inclusivi? Opportunità o ostacolo?

Io cerco sempre di vedere positivo e quindi quando c’è un elemento esterno che ci costringe a cambiare io cerco sempre di cogliere le opportunità. Può essere un modo per mettere in discussione alcuni schemi mentali che abbiamo e trovare delle soluzioni migliori. Poi non è detto che sia così però il distanziamento sociale favorisce, per esempio, il pensiero di spazi un po’ più ampi e per garantire una migliore accessibilità e inclusione le dimensioni degli spazi sono importanti: per esempio per una persona che si muove sulla sedia a rotelle avere un po’ più di spazio di manovra nei corridoi, negli uffici e nei bagni stessi è fondamentale. Se queste condizioni di distanziamento sociale ci costringeranno a rivedere il calibro degli spazi in cui ci muoviamo otterremo sicuramente grandi benefici.

Laboratorio per futuri operatori turistici sul turismo inclusivo

Che ruolo hanno gli spazi verdi nella progettazione inclusiva?

Direi proprio che hanno un ruolo importante. In questi ultimi anni, già prima della pandemia, le zone verdi sono diventate sempre di più luoghi frequentati, di incontro e aggregazione. Per esempio la Greenway qui a Bergamo è frequentatissima. Si incontrano quasi più persone lì che sul Sentierone. Oppure la ciclabile della Val Seriana che esiste da un po’ di anni ed è diventata per i paesi della bassa e media Val Seriana un punto dove ci si incontra e ci si trova. Luoghi, insomma, sempre più centrali nella vita delle comunità. Credo quindi che sia davvero importante che questi spazi verdi siano progettati in modo inclusivo perché tutti devono poterci andare. Io sono stato consigliere comunale per qualche anno qui a Bergamo e abbiamo lanciato un progetto per rendere inclusiva un’area verde a Celadina, un parco per l’esattezza. I giochi che abbiamo progettato seguivano il modello dell’inclusività: tutti i bambini, indipendentemente dalle capacità motorie, cognitive, sensoriali possono stare e giocare, soprattutto giocare insieme agli altri. Negli ultimi anni si sono riempiti i parchi giochi di mezza Italia con quelle altalene così dette “accessibili”, quelle con la pedana su cui si può salire con la carrozzina. Ecco, queste sono cose che, a mio avviso, non vanno bene perché l’altalena diventa sì accessibile, ma per nulla inclusiva perché la possono usare solo i bambini in carrozzina. Poi succede, inevitabilmente, che ci giochino anche gli altri bambini e magari si fanno male o la danneggiano. Invece bisogna pensare a dei giochi, dei percorsi, delle pavimentazioni che permettano a tutti di vivere quei luoghi.

Quale è il progetto portato avanti dal vostro studio Habilis con questi criteri di accessibilità che ricorda con più piacere?

Il primo che mi viene in mente è un progetto ormai concluso di qualche anno fa in cui veramente mi sono appassionato. Si tratta di un grande progetto di un villaggio realizzato in un paese della Bassa Bergamasca, si chiama “Villaggio Solidale”. Consiste in quattro edifici con spazi aperti e spazi di condivisione strutturato in modo tale da favorire l’accoglienza delle persone fragili: ci sono alloggi per l’autonomia, abitati da persone che stanno cercando di intraprendere un percorso di vita autonomo supportate da altre persone, alloggi per famiglie che accettano di prendere bambini in affido e una comunità alloggio per minori. Si tratta quindi di un progetto che ha al cuore i minori e il ripristino della loro inclusione all’interno di una comunità. Ci sono poi altri spazi come un centro diurno per persone con disabilità, una grande sala polifunzionale con cucine comuni. Insomma, il tempio dell’inclusione e dell’accoglienza che sta tuttora funzionando bene.

Lei oltre a essere un docente per Terza Università, ha anche avuto la possibilità con altri colleghi del suo studio di progettare dei laboratori a tema “inclusività” per bambini e ragazzi: quale esperienza laboratoriale ricorda con più piacere?

Abbiamo avuto esperienze di questo tipo con ragazzi piccoli delle medie o addirittura della primaria, ma anche con ragazzi più grandi degli istituti tecnici, soprattutto geometri o ragazzi del liceo artistico. Si trattava di esperienze di formazione per ragazzi che avrebbero poi creato dei progetti. Quindi cercavamo di incanalare la loro attenzione sull’accessibilità e l’inclusione come elementi da includere all’interno del loro lavoro. Abbiamo fatto dei laboratori, per esempio all’istituto Quarenghi di Bergamo, in cui invitavamo i ragazzi a fare progetti per rendere accessibile e inclusiva la propria scuola. In questo modo abbiamo cercato di farli riflettere sul cambio di prospettiva che bisogna avere quando si progetta e il tipo di sguardo critico che occorre avere anche e soprattutto su un luogo che si è abituati a frequentare quotidianamente.

Festa dei volontari al “Villaggio Solidale”

Come è cambiata la sua vita in questo anno di pandemia?

È un periodo difficile per tutti e lo è anche per me, sia da un punto di vista lavorativo sia da un punto di vista della vita sociale. Però è anche un periodo in cui ho imparato un sacco di cose nuove. Un po’ tutti siamo stati costretti a diventare più spigliati con la tecnologia e reinventarci per fare uno scatto di crescita verso una società sempre più smart. Poi dal punto di vista personale la mia vita era già cambiata da più di un anno perché i miei figli sono grandi e sono usciti di casa e a un certo punto è uscita di casa anche mia moglie perché è andata a lavorare in Albania! Quindi viviamo insieme solo quando io riesco ad andare là e quando lei torna a Bergamo. Però con la pandemia spostarsi è ovviamente più difficile.

Che consiglio e che augurio si sente di dare ai soci di Terza Università per affrontare questo periodo così complesso?

Auguro a tutti di poter essere vaccinati il prima possibile! Poi consiglio di portare pazienza e prendere questo periodo storico come una sfida, come un’opportunità per mettersi in gioco e imparare cose nuove. Infine consiglio di essere particolarmente affettuosi con i nipoti: i ragazzi sono quelli che, silenziosamente, stanno soffrendo di più in questa situazione.

Un pensiero su “Interviste ai docenti – Nicola Eynard

  • franca e mario

    Anni or sono abbiamo seguito un corso con l’architetto. E’ riuscito a coinvolgerci moltissimo, sono trascorsi gli anni ma ci sembra sia rimasta immutata la sua ‘carica’: complimenti architetto!!

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